Renato è un caro amico.
Lavora dal mattino presto alla sera tardi.
Da quarant’anni. Forse più.
Renato ha una forza che sembra inesauribile. Tranne quando la sera a casa mia si mette a russare sonoramente.
Renato è un imprenditore, protegge i suoi lavoratori, la famiglia e gli amici. È generoso. Tranne quando ritiene che gli sia stato fatto un torto.
Ho sempre ammirato gli imprenditori Italiani come Renato (sono figlio di uno) per alcune peculiari caratteristiche:
- Capacità di sopportare grandi carichi di lavoro
- Spirito di sacrificio
- Forza e determinazione
- Cuore
Mentre li ho sempre sfidati sulle loro debolezze (quali debolezze???):
- “Qui si fa così e se non ti piace quella è la porta!”
- Considerare lazzaroni e scansafatiche tutti quelli che non lavorano (es. tutti gli statali, notai e avvocati, professori che si fanno tre mesi di vacanza, ecc. ecc.)
- Negare debolezze, dubbi, stanchezza e la propria tenerezza.
A pochi giorni dalle italiche ferie d’Agosto mi chiedo una cosa:
Non è invece che il lavoro è diventato un costume sociale preso da tutti per scontato?
Beh, il fatto che tutti riteniamo il lavoro (parlo per l’Occidente), giusto, necessario, dovuto, “nobilitante” (c’è anche chi diceva che rende liberi) lo rende incontestabile e sovrano, e chiunque si provasse di sfidare questa “verità” (come il sottoscritto) andrebbe curato.
Il problema non sta però nel lavoro ma negli assolutismi.
Come il pensiero critico Socratico ci ha insegnato, una cosa può dirsi Vera solo se non ha un suo opposto.
Lavorare in se non è né giusto né sbagliato e come per ogni cosa creata su questa terra rappresenta un mezzo.
Il problema sta nel polarizzarsi, nel crederlo necessario a prescindere.
Chi difende il lavoro a prescindere avrà dalla sua moltissime argomentazioni su quanto sia giusto e necessario lavorare, provo ad azzardare:
- senza il lavoro non potremmo avere soldi
- non saremmo andati sulla Luna
- non ci sarebbero le scuole
- non avremmo le automobili
- non avremmo gli smartphone
- non potremmo leggere questa newsletter
Ma in una società lavoro-centrica che considera i paesi virtuosi solo quelli sotto una certa percentuale di disoccupazione le conseguenze e il prezzo da pagare sono enormi, eccone solo alcune:
- Famiglie e aziende schiave di mutui, rate e fideiussioni.
- Schiavi del denaro.
- Lavori scelti non per vocazione ma per disperazione.
- Stress indotto dal lavoro.
- Schiere di esseri umani che fanno il conto alla rovescia su quanto gli manchi alla pensione.
- Bambini cresciuti da nidi, nonni, badanti, smartphone, tutto tranne da chi li ha generati che è al lavoro.
Cosa fare allora?
Ritengo che il mondo del lavoro (e quindi dell’economia) stia cambiando e che gli stati attuali di costante crisi e sofferenza altro non siano che le doglie del parto di un nuovo mondo.
Iniziare a cambiare oggi il proprio paradigma riguardo al lavoro è necessario per permetterci di vivere meglio domani.
Per stimolare la riflessione voglio citare le parole di un grande illuminato passato alla storia con il nome di Gesù:
“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai…osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano…Non valete voi molto più di loro?” (Matteo 6,24-34)
Ma chi sono io per parlare di lavoro? Ne ho titolo? In verità solo per metà ovvero so che cosa è il lavoro di cui parlo sopra ma non so cosa sia il suo opposto e se non conosco il suo opposto significa che non so nulla.
Però posso dire di essere sulla buona strada.
Alla fine di quest’anno dopo più di venticinque anni di lavoro nell’azienda di famiglia mi licenzio quindi non ne avrò più uno.
Dovrò scegliere cosa fare, ma non parlo di che lavoro fare, dovrò scegliere se lavorare o no.
Buone vacanze a tutti e a Renato! Dopotutto se non lavorassimo non ne avremmo nemmeno bisogno (di vacanze, non di Renato).